I miei ricordi
Abstract
Carocci narrates his 6-year imprisonment in India and Australia during WWII. After Mussolini’s fall in 1943 he refuses to collaborate with the English. A substantial portion of his memoir tells about all the various creative activities of the Italian prisoners:
Translation
After sixteen days of sailing, we reached the port of Melbourne, a city known for its Italian population, which turned out to be true. The journey was pleasant, and we were treated fairly well. We slept in bunks, the food was plentiful and of good quality, and we had a reasonable amount of freedom to move around the ship. Some of the passengers were Italian-Americans, children of immigrants. We had conversations with them, especially because some of them spoke Italian, as I mentioned earlier. They encouraged us, saying that the war would soon come to an end and we would be reunited with our families. We appreciated their kind words and thanked them sincerely. However, we were somewhat skeptical. We believed the opposite would happen; it seemed unlikely that they would transport over two thousand prisoners to a distant land for only a short period. There was something else going on, and indeed our prediction came true.
As we approached the equator, the temperature rose significantly, making it difficult to breathe. The Italian-American boys complained, saying, “paisà facite calli” (compatriots, make room). It was said that this region often experienced heavy rain showers due to the heat. Fortunately, these showers were short-lived, allowing us to remain on deck and even take refreshing baths. After a few hours, a heavy downpour occurred, and many of us, including the crew, finally had a long-awaited bath. However, the steam made the air even hotter and more humid for a brief period, but the ship kept moving forward.
Among our group was a friend named Recchia Fiordalisi, a somewhat eccentric character from Tivoli, who went by the nickname “Girardengo” after a famous cyclist. He was very entertaining and seemed to have an insatiable appetite. Everywhere he went, he tried to work in the kitchen. Even on the ship, he managed to secure a job in the kitchen. Two days into the journey, he approached the cooks and asked if they needed any help with cleaning. The…
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As we approached the equator, the temperature rose significantly, making it difficult to breathe. The Italian-American boys complained, saying, “paisà facite calli” (compatriots, make room). It was said that this region often experienced heavy rain showers due to the heat. Fortunately, these showers were short-lived, allowing us to remain on deck and even take refreshing baths. After a few hours, a heavy downpour occurred, and many of us, including the crew, finally had a long-awaited bath. However, the steam made the air even hotter and more humid for a brief period, but the ship kept moving forward.
Among our group was a friend named Recchia Fiordalisi, a somewhat eccentric character from Tivoli, who went by the nickname “Girardengo” after a famous cyclist. He was very entertaining and seemed to have an insatiable appetite. Everywhere he went, he tried to work in the kitchen. Even on the ship, he managed to secure a job in the kitchen. Two days into the journey, he approached the cooks and asked if they needed any help with cleaning. The…
Date |
2002-2004 |
Transcription |
Dopo sedici giorni di navigazione arrivammo nel porto di Melbourne, una città che si diceva fosse abitata da molti italiani, infatti era così. Il viaggio fu molto bello, ci trattarono abbastanza bene, si dormiva nelle cuccette, il mangiare era buono ed abbondante, eravamo abbastanza liberi, si poteva circolare liberamente sulla nave. C’erano diversi italo-americani, figli di emigrati. Si conversava e si parlava di tante cose, anche perché alcuni parlavano l’italiano come già detto. Ci rianimarono dicendo che la guerra sarebbe finita molto presto é saremmo ritornati alle nostre famiglie, apprezzammo molto questo augurio, furono molto gentili e noi li ringraziammo di cuore. Noi però eravamo un pò scettici, pensavamo il contrario, non potevano portare oltre duemila prigionieri, un numero elevato, in una terra cosi lontana, soltanto per poco tempo, c’era sotto qualcosa, ed infatti si verificò quello che noi prevedevamo. Quanto più ci avvicinavamo all’equatore tanto più faceva caldo, si faticava anche a respirare. Gli italo-americani erano ragazzi e si lamentavano dicendo: “paisà facite calli”. Si diceva che a causa di quel caldo, spesso in quella zona c’erano dei forti acquazzoni, fortunatamente non tanto lunghi, quindi era possibile rimanere sul ponte e si poteva fare anche un bel bagno per rinfrescarsi, difatti dopo qualche ora venne giù un’acqua a catinelle, parecchi dell’equipaggio, noi compresi facemmo un bel bagno tanto desiderato. Ritornò poi ancora più caldo umido a causa del vapore, ma solo per poche ore perché la nave continuava ad andare avanti. Fra di noi c’era un amico, un personaggio un po’ particolare, era di Tivoli, si chiamava Recchia Fiordalisi detto “Girardengo”, corridore in discesa, perché era molto divertente. Sembrava che avesse, come si dice, “il verme solitario”, pesava intorno ad un quintale e aveva sempre fame. In tutti i campi dove era stato aveva sempre cercato di andare a lavorare in cucina. Anche sulla nave studiò un modo per poter andare in cucina a lavorare, dopo due giorni di navigazione andò in cucina e domandò ai cucinieri se avevano bisogno di qualcuno per le pulizie. Lo assunsero subito, lo misero alla pulizia delle marmitte, teglie, ecc. Dentro una teglia vi erano avanzate parecchie bistecche che sarebbero state con molta probabilità buttate, per lui la parola buttare non esisteva nel suo dizionario, quindi cominciò a mangiarle una alla volta. Arrivato oltre venti si saziò e non riuscì a mangiarne di più. A quel punto le prendeva e se le sbatteva sul viso, dicendo a se stesso: “come é possibile che rifiuti le bistecche? non ricordi quanta fame hai patito?” ci facemmo una gran risata! Il viaggio andava molto bene, passarono sedici giorni come ho detto, in piena armonia, si poteva passeggiare lungo la nave, attenendosi alle disposizioni di bordo, si giocava a dama, a carte, anche con, gli italo-americani. Fu un viaggio veramente rilassante e meraviglioso, quei pochi giorni li abbiamo vissuti con delle persone civili e cordiali, non come con gli inglesi, da prigionieri, privati di molte necessità soprattutto igieniche, dormire per terra come gli animali e mangiare pochissimo. Arrivati nel porto di Melbourne radunammo i nostri indumenti ed iniziò lo sbarco, con molta calma. Ci fecero salire su di un treno che sembrava di alta velocità, aveva un’andatura di non meno duecento all’ora, si capiva dalle brecce che sbattevano sotto il treno con violenza tanto da mettere paura. Con tutta quella corrente d’aria fredda parecchi di noi si presero un forte raffreddore, anche perché partimmo dall’India che era estate, arrivammo in Australia che era inverno. Grazie ad una pomata chiamata “balsamo orientale” che portavamo dall’India, messa sulla fronte e sul naso, passarono subito i nostri malesseri derivati anche dal cambiamento di clima. Intanto il treno continuava la sua corsa, fece una piccola sosta nella stazione di Adelaide, un’altra città con molti abitanti italiani, poi il treno riprese il suo cammino. Era già notte quando sentimmo ad un tratto una grande frenata e un grande botto come se due macchine si fossero scontrate, tanto da farci cadere tutti a terra, ci caddero anche addosso tutti i nostri bagagli, ci furono parecchi feriti, anche io ebbi una lieve ferita al braccio. Arrivarono dottori, autoambulanze, tutti quelli gravi li portarono subito all’ospedale, quelli meno gravi vennero curati sul posto. Fu un momento molto brutto quello, a noi non ci fecero sapere nulla di quello che era successo, rimanemmo tutta la notte sul treno e faceva anche molto freddo. Ad un certo punto vedemmo le due macchine motrici schiacciate forse fuori uso compresi i primi vagoni ridotti molto male, quindi si trattò di uno scontro frontale delle due motrici, ci furono alcuni morti oltre ai macchinisti e parecchi feriti. In tarda mattinata il treno ricominciò a muoversi con calma. Il viaggio durò circa due giorni, il mangiare era servito al sacco, infine arrivati in una stazione ci fecero scendere e con i camion ci portarono in un campo provvisorio per qualche giorno. Era spoglio di tutti i servizi, ci dovemmo arrangiare alla meglio come sempre, per lavarci c’era un tubo da mezzo pollice zincato, da sei metri, con vari buchi, messa in maniera provvisoria su due legni a croce, dal quale uscivano dei filetti di acqua che servivano per lavarsi il viso. Per andare al bagno era un vero problema, dentro un grande baraccone c’erano dei recipienti in lamiera zincata fatti tipo tazza alla turca, messi allineati sulle pareti di destra e sinistra, sollevati circa mezzo metro da terra, faceva schifo e vergogna vedersi uno di fronte all’altro. Inoltre si dormiva per terra dentro a delle tende con un gran freddo che ci avvolgeva tutta la notte, per fortuna si trattò di star lì solo pochi giorni. Il campo era comandato da un ufficiale australiano, un pazzo da legare, perché la sera del primo giorno, appena arrivati, venne al campo quando non era neanche notte, con la pistola in mano sparando continuamente in aria dicendo di andare di corsa tutti a dormire e sparire dal campo, dicendo anche parolacce. Sapevamo bene che gli australiani erano dei galeotti inglesi espatriati da Londra e portati tutti in Australia, pensammo subito: “questo é uno di quelli” pertanto dovem-mo correre di corsa nelle tende per evitare il peggio. Dopo due giorni circa ci portarono in una stazione ferroviaria, salimmo su di un treno e cominciammo a viaggiare per diversi giorni, si attraversò tutto il Gran Deserto Vittoria dove vivono la maggior parte degli aborigeni, cioè i veri australiani. Credo che il percorso fu di circa 600 chilometri, era un caldo soffocante, ad un certo punto il treno si fermò, forse per fare rifornimento e ci fecero scendere anche a noi per un pò di tempo per sgranchirsi le gambe, fatto straordinario, ma forse perché stavamo in pieno deserto, dove non potevamo scappare da nessuna parte, dopo si ripartì e si arrivò nella zona di Fremantle a sud dell’Australia nella regione di Perth. Arrivati infine a destinazione ci fecero scendere dal treno e ci portarono con i camion nei campi di concentramento come era di solito. Appena entrammo vedemmo qualcosa di nuovo, era un campo molto grande con parecchie baracche di legno fatte molto bene e rialzate da terra circa 60 centimetri, certamente erano campi militari attualmente vuoti. Per ogni venti di noi ci assegnarono una baracca, fu una cosa meravigliosa ed inaspettata dormire nelle baracche protette dal caldo e dal freddo. Però ci fu una grande sorpresa, mentre in India si dormiva nelle tende e in brande di legno con corda intrecciata, dove magari si formavano parecchie cimici, tanto che ogni dieci o quindici giorni al massimo bisognava smontarle e bruciarle per mandare via quegli animaletti, qui in Australia bisognava dormire per terra sul tavolato, con tre pagliericci di crine, alla stessa maniera in cui dormivano i soldati australiani. Finalmente ci comunicarono lo scopo per cui ci avevano portato in Australia: non per stare dentro i campi come sempre, ma per andare a lavorare nelle fattorie, quindi dovevamo essere mano mano traslocati nelle “farms” agricole. Ci comunicarono come funzionavano i traslochi per collocarci nelle varie farms: l’agricoltore aveva la facoltà di richiedere da uno a tre prigionieri al massimo. Fino a due si mangiava con loro in famiglia e quello che mangiavano loro, quando si era in tre, il boss doveva fornire i viveri in natura in modo che loro potevano cucinare a modo loro all’italiana. C’era anche un’altra disposizione che riguardava direttamente la nostra scelta di andare nelle fattorie da soli, o in due, o in tre. Si erano costituiti degli uffici chiamati distretti, erano tipo degli uffici di collocamento, nei quali gli agricoltori andavano a fare richiesta di quanti prigionieri gli occorrevano nella sua farm. (also available: https://www.idiariraccontano.org/estratti/nelle-farm/) |
Subject | |
Category | |
Author |
Stefano Carocci |
Keywords |
Imprisonment India Freemantle |
Current holder | |
Link | |
Item number |
MP/05 |
Access rights |
Permission required |
Rights |
ADN |
Country of origin | |
Language | |
Period of reference |
1930-1979 |
Description from source |
Allo scoppio della guerra lavora come apprendista meccanico in un officina romana. Viene fatto prigioniero e passa quattro anni in India, nei campi di lavoro inglesi, poi in quelli di isolamento perchè considerato criminale e fascista. Da lì viene trasportato in Australia, per lavorare nelle “farm” agricole. Alla fine della guerra ritorna in Italia dove cerca di costruirsi un futuro attraverso molti mestieri, dal fabbro all’idraulico, all’agricoltore. Si sposa e ha quattro figli. At the outbreak of the war, Stefano Carocci worked as a mechanic apprentice in a Roman workshop. He was taken prisoner and spent four years in India, in British labour camps, and later in isolation camps because he was considered a criminal and a fascist. From there, he was transported to Australia to work on agricultural farms. At the end of WWII, he returned to Italy, where he tried to build a future for himself through various trades, from blacksmithing to plumbing to farming. He got married and had four children. |
Physical format |
Diaries |
Related resources | |
Bibliographic citation |
Erika Lorenzon, Lo sguardo lontano - L'italia della Seconda guerra mondiale nella memoria dei prigionieri di guerra (Venice: Edizioni Ca' Foscari, 2018). |
Date accessed |
2022-06-01 |
Place of Publication |
Italy |
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